Le grandi pandemie del passato
La serie di articoli Oltre il covid19 prosegue con la seconda parte, sempre scritta dal nostro socio Dott. Giovanni Mannino.
Da tempi remoti, le civiltà hanno dovuto affrontare epidemie che si sono spesso protratte per molti anni. Le più tristemente famose che hanno riguardato l’Europa (dove hanno lasciato profonde ferite) sono la peste, il vaiolo, il colera,e il tifo. Spesso queste malattie erano accompagnate da guerre e da carestie, il che creava discontinuità nei commerci, e perfino alterava i normali rapporti familiari. Queste malattie contagiose hanno imperversato una dopo l’altra – o contemporaneamente – apparendo e scomparendo con il trascorrere dei secoli.
La più impressionante e sconvolgente è stata la peste nera che ha devastato l’Europa dal 1347 al 1352, sterminando tra il 25 e il 50% della popolazione, portando con sé grandi cambiamenti nell’economia, nell’assetto politico degli Stati e financo nella religione..
PESTE
Eziologia
Agente eziologico della peste è un batterio, Yersinia Pestis (precedentemente chiamato Pasteurella Pestis), che, dai roditori, si trasmette all’uomo, tramite un vettore, la pulce dei ratti o Xenopsylla cheopis. Il contagio avviene nell’uomo tramite contaminazione con gli animali infetti (specie nei mesi estivi) o attraverso la manipolazione delle carni dei medesimi animali.
Normalmente le pulci sono parassite dei roditori, ratti soprattutto, ma anche di alcune specie di scoiattoli, e dei cani della prateria. In qualche caso le pulci possono infettare anche gli animali domestici come i gatti. In genere Yersinia Pestis circola tra queste specie senza causare alti tassi di mortalità, e quindi questi animali sono sostanzialmente delle riserve infettive a lungo termine. Occasionalmente, un’epidemia può uccidere anche grandi quantità di roditori serbatoi; avviene allora che le pulci, in cerca di nuovi ospiti, si trasmettono anche agli esseri umani, diffondendo la malattia.
Patogenesi
La Xenopsylla si infetta suggendo il sangue di ratti (o di uomini in fase batteriemica); all’atto di un nuovo pasto, rigurgita nel nuovo ospite i microrganismi riprodottosi attivamente nel suo lume intestinale. L’infezione può avvenire anche per contatto diretto con gli organi di un animale pestoso, oppure per via aerogena. Nella forma clinica più comune (peste bubbonica) Yersinia pestis. penetrata nell’organismo ospite attraverso la puntura dell’ectoparassita, raggiunge i linfonodi regionali, ove provoca iperplasia, infiammazione locale, ed emorragie.
Da quì il microrganismo raggiunge il circolo, e si distribuisce ai vari organi (milza, fegato, S.N.C., polmoni, ecc.). Particolarmente importante risulta la localizzazione polmonare, perchè punto di partenza del contagio per via inalatoria (polmonite pestosa primitiva da inalazione). In qualche caso la reazione linfoghiandolare locale è solo modesta e Yersinia pestis raggiunge il torrente circolatorio senza che il quadro sia dominato dai bubboni o dai sintomi polmonari. Si parla allóra di peste setticemica, Le alterazioni emorragiche disseminate e la profonda compromissione delle condizioni generali degli ammalati vengono, almeno in parte, ricondotte alla produzione di tossine batteriche.
Sintomatologia
peste bubbonica
Dopo un’incubazione di una decina di giorni, la sintomatologia esordisce il più delle volte in modo brusco. Nella peste bubbonica si manifesta in seguito alla puntura di pulci infette o per contatto diretto tra materiale infetto e lesioni della pelle di una persona. Manifestazione tipica di questa forma è lo sviluppo di bubboni, ingrossamenti infiammati delle ghiandole linfatiche, seguiti da febbre, brividi, mal di testa, vomito, marcata prostrazione e delirio brividi. In questa forma la peste non si trasmette da persona a persona.
Il bubbone, che nel 60-70% dei casi ha sede inguinale (il morso infettante avviene alle estremità inferiori), è formato da un gruppo di linfonodi circondati da una zona di edema, spesso emorragico; la palpazione suscita vivo dolore. Se la malattia non ha un decorso fulminante, l’evoluzione è verso la suppurazione, con fuoriuscita di materiale ricco di Y. pestis. Il decorso è caratterizzato da febbre irregolare, con curva termica spesso bifasica (caduta al momento di comparsa delle tumefazioni linfoghiandolari e quindi risalita). Nei casi favorevoli si ha sfebbramento nella seconda settimana di malattia; l’exitus si verifica invece, il più delle volte, nei primi 6-7 giorni, preceduta da iperpiressia ed accompagnata da tachicardia, emorragie, diarrea, oliguria, interessamento meningeo, conseguenza della abbondante liberazione di tossine.
peste polmonare
Più grave appare la peste polmonare, invariabilmente letale in pochi giorni in assenza di trattamento adeguato. Il batterio infetta i polmoni., per cui la malattia può trasmettersi da persona a persona attraverso l’aria o gli aerosol di persone infette. La forma polmonare può derivare anche dalla degenerazione delle altre forme se non sono curate prontamente.Si manifesta con febbre elevata, dispnea intensa, prostrazione, tosse e cianosi. Nell’espettorato, striato di sangue, si evidenzia sempre il germe responsabile.
peste setticemica
La forma setticemica è caratterizzata da una grave sintomatologia di tipo settico. Deriva dalla moltiplicazione della Y. Pestis nel sangue, e può essere una conseguenza di complicazioni delle due forme precedenti. Viene contratta per le stesse cause di quella bubbonica, e non si trasmette da persona a persona. Causa febbre, brividi, dolori addominali, shock e prostrazione, sanguinamenti della pelle e di altri organi, ma non si manifesta con bubboni.
Riepilogo
Il sospetto di peste si dovrebbe avere in seguito alla manifestazione dei primi sintomi, soprattutto in presenza di un bubbone, e di una possibile storia di esposizione a roditori o pulci. I bubboni solitamente si manifestano dopo 2-6 giorni dall’esposizione, e la malattia procede in modo rapido, eventualmente degenerando nelle forme polmonare e setticemica se non è trattata prontamente. L’incubazione della forma polmonare primaria invece dura da uno a tre giorni ed è caratterizzata da una polmonite acuta con tosse e sputo di sangue. Il tasso di morte nei pazienti con peste polmonare è del 50 per cento.
Epidemia di Peste del 1350
La storia della grande peste nell’Europa del 1350, che ha causato la morte di quasi un terzo della popolazione europea e ha letteralmente contagiato tutti i paesi dal Mediterraneo alla Scandinavia nel giro di cinque anni, è particolarmente raccapricciante perché è stata la conseguenza di un atto deliberato di bioterrorismo. Nel 1347, infatti, l’esercito dei tartari stava assediando Caffa, scalo commerciale della città di Genova in Crimea. Nell’esercito tartaro imperversava un’epidemia di peste, diffusa da qualche anno in Asia e così il khan Ganibek decise di catapultare dentro la città assediata i corpi dei soldati morti affinchè in questa si diffondesse il morbo.
I marinai genovesi, scappando da Caffa, portarono la peste nei porti del Mediterraneo e da lì la malattia si diffuse in tutta Europa, complice la carestia. Molte persone, infatti, si erano trasferite in città, sperando invano di trovare una vita migliore e così le condizioni sociali e igieniche delle città erano peggiorate. La malnutrizione, le cattive condizioni igieniche, i sistemi immunitari deboli e l’affollamento urbano favorirono la moltiplicazione dei ratti e aiutarono la diffusione del contagio. In Europa la malattia rimase endemica, ricomparendo come epidemia a cicli di 10-12 anni, per i successivi tre secoli almeno. Anche oggi, nonostante sia ormai una malattia dalla diffusione molto limitata, la peste evoca, nell’immaginario collettivo, immagini di orrore di devastazione e di morte.
La Peste nell’arte
Letteratura
Il ricordo della Peste ci è stato tramandato, nella letteratura, dal passato, anche remoto: Tucidite descrisse la Peste di Atene, avvenuta a cavallo del 430 a.C., in una sua Opera, Storia della guerra del Peloponneso, in cui racconta, con rigore scientifico non contaminato da motivazioni religiose o ricorso a forze misteriose extra-umane, i sintomi orrendi della malattia, nonché il suo decorso e il triste epilogo. Racconta di come la malattia provocasse la morte di migliaia di persone, forse la metà della popolazione di Atene, con l’amaro scoraggiamento dei superstiti che abbandonavano i loro cari infetti, con gli occhi pieni delle immagini dolenti di ciò che la malattia comportava, con la consapevolezza che non ci fossero rimedi, nè sepolture consacrate.
Tito Lucrezio Caro qualche secolo dopo descrive la stessa pestilenza nell’ultimo passo del De Rerum Natura; Giovanni Boccaccio, nell’Introduzione alla prima giornata del Decameron, descrive la pestilenza che colpì Firenze (e l’Europa intera) nel 1348, analizzando in modo dettagliato i primi segni del male ma ancor di più il degrado morale della società e la dissoluzione di ogni forma di rapporto civile che questo comporta. Alessandro Manzoni racconta, poi, con dovizia di particolari, ne I Promessi Sposi, l’epidemia di Peste Bubbonica che colpì l’Italia Settentrionale nel 1630 (ove morì più di un milione di persone, a monte di una popolazione complessiva di circa quattro milioni).
Infine, in tempi moderni (1947), Albert Camus descrive (con toni vividi, come se fosse realmente accaduta) il dilagare di un’epidemia di Peste Bubbonica ad Orano, in Algeria.
Pittura
Nell’arte pittorica cito, in particolare, “Il San Rocco e un donatore”, pala d’altare che si trova in San Petronio a Bologna, dipinta da un pittore italiano, il Parmigianino nel 1527, in fuga in seguito all’invasione di Roma da parte dei Lanzachenecchi (Il famoso Sacco di Roma). Si narra che il Santo fu colpito dal male ma poi guarì per intervento divino; è, infatti, rappresentato con una coscia scoperta, per mostrare la presenza del bubbone, segno del male.
Sono ormai quattro lustri quando potei ammirare, alMuseo del PradodiMadrid, un famoso quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, “Il Trionfo della Morte”: il dipinto mostra un paesaggio brullo, desolato; gruppi di scheletri, comandati dalla Morte, a cavallo, con in mano una lunga falce, radunano vivi e moribondi, per trascinarli in delle grandi bare. E’ evidente il senso di angoscia, scatenato non solo dalla pestilenza, ma anche dalla carestia e dalle guerre.
Un altro quadro, intitolato “La Peste” del pittore svizzero Arnold Böcklin, rappresenta la Morte, che cavalca una creatura alata, forse un gigantesco pipistrello. Anche qui, la Morte è vista come un incubo, portata dalla Peste per le vie anguste di una cittadina medievale, portando distruzione e profonda disperazione .
Affascinante è Il Trionfo della Morte , affresco di autore ignoto del ‘400, che dalla sua sede originaria – Palazzo Sclafani a Palermo – è stato ricomposto e conservato alla Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis. Si pensa che quest’opera abbia ispirato Picasso per la realizzazione della Guernica.
Infine, gli innumerevoli monumenti che sono sorti in tutta l’Europa, come testimonianza dello scampato pericolo: vedasi la Colonna della Peste (Pestsäule), a Vienna.
Misure terapeutiche
Si può ridurre l’incidenza della peste col trattamento igienico degli ambienti, con la disinfestazione dei ratti e di altri roditori e delle pulci che li accompagnano, e all’educazione sanitaria pubblica.
Al momento non è disponibile un vaccino contro la peste, per cui non è possibile effettuare un trattamento preventivo di questa malattia. Diventa quindi essenziale riconoscerne i sintomi rapidamente e intervenire nelle prime ore dalla loro comparsa.
Certamente pittoresca è l’immagine del Medico della Peste, con il suo caratteristico abito costituito da una sorta di tonaca nera lunga fino alle caviglie, un paio di guanti, un paio di scarpe, un bastone, un cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco dove erano contenute essenze aromatiche quali fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e, quasi sempre, spugne imbevute di aceto e paglia, che agivano da filtro.
L’uso di questo abito – comprensibilmente non molto amato dalla popolazione – cadde in disuso nel XVIII secolo.
Poesia del XVII secolo
«Come si vede nell’immagine, a Roma i medici compaiono quando sono chiamati presso i loro pazienti nei luoghi colpiti dalla peste. I loro cappelli e mantelli, di foggia nuova, sono in tela cerata nera. Le loro maschere hanno lenti di vetro i loro becchi sono imbottiti di antidoti. L’aria malsana non può far loro alcun male, né li mette in allarme. Il bastone nella mano serve a mostrare la nobiltà del loro mestiere, ovunque vadano.»
Infezione di peste recente
Un quindicenne in Mongolia è morto (nel maggio 2020) di peste bubbonica dopo aver mangiato carne di marmotta (marmotta tarbagan). Avrebbe manifestato febbre alta dopo aver mangiato la carne insieme a due amici. È deceduto tre giorni dopo. Prontamente sono state poste in quarantena quindici persone, che sono state, inoltre, sottoposte a terapia antibiotica. Il caso non risulta essere stato isolato: altre due persone sono morte nel mese precedente. Avevano mangiato rene di marmotta, considerato, in quel paese cibo ricco di virtù terapeutiche e salutari. Almeno una persona l’anno in Mongolia muore di peste.
La marmotta tarbagan è una specie di roditore della famiglia degli Sciuridi. Si trova in Cina, Mongolia settentrionale ed occidentale e Russia.
VAIOLO
Il vaiolo era una gravissima malattia infettiva, dovuta ad un virus (Poxvirus). La ricordo in questa sede poichè è stata responsabile di gravissime epidemie, nel corso del XVII e XVIII secolo, ad altissima letalità. Successivamente si è presentata in forma endemica (India; Africa); l’ultimo focolaio in Europa è stato segnalato nel 1972.
Il vaiolo è l’unico esempio di malattia infettiva che sia stata eradicata, grazie alle campagne vaccinali: dopo l’ultimo caso, avvenuto in Africa nel 1977, non sono stati segnalati altri casi di malattia; pertanto l’OMS, nel 1980, ne ha decretato la definitiva scomparsa.
La malattia si trasmetteva per contagio diretto o tramite oggetti contaminati dalle secrezioni orofaingee dei malati o dalle croste delle lesioni cutanee. Non esistevano portatori sani; la contagiosità durava fino alla completa desquamazione. I sopravvissuti alla malattia svuppavano immunità permanente.
Patogenesi
Il virus penetrava nell’organismo per via inalatoria, moltiplicandosi nei linfonodi loco-regionali; poi passava nel sangue, raggiungendo, in pratica, tutti gli organi, dove, ancora una volta, si moltiplicava. A questo punto seguiva un’altra fase di diffusione viremica, dopo di che il virus si localizzava a cute e mucose. Il passaggio alla cute segna l’inizio della sintomatologia clinica: le cellule epiteliali di cute e mucose vanno in necrosi; si formano le vescicole, che, essiccandosi, danno luogo alle croste che, cadendo, lasciano cicatrici permanenti. Lesioni degenerative concomitano nel cuore, fegato, polmoni e reni.
Sintomatologia
Dopo circa due settimane dall’ingresso del virus, faceva la sua comparsa la febbre (in concomitanza alla seconda fase viremica); seguiva cefalea, rachialgia, vomito e dispnea. Poi compariva un fugace rash cutaneo (su tutto il corpo, ma più evidente alle ascelle, all’inguine e all’addome) e, caduta la febbre, e migliorando le condizioni generali, si manifestava l’esantema (in modalità centripeta, dalla testa agli arti inferiori), sotto forma di macule che poi si trasformavano in papule e successivamente in vescicole. Da tener presente che questi elementi erano riscontrabili anche in tutte le musose (vie respiratorie, genitali, vie digerenti), determinando sintomi diversi da caso a caso.
Dopo 3-4 giorni, contemporaneamente, tutte le vescicole diventavano pustole, a contenuto purulento: la febbre risaliva, la sintomatologia tornava ad aggravarsi fino alla morte, per complicanze cardiocircolatorie o polmonari. Nei casi fortunati le pustole si aprivano e si formavano le croste: le condizioni generali miglioravano e le croste, cadendo, davano origine a cicatrici permanenti.
Complicanze
Tutti gli organi potevano esserne interessati: dalle superinfezioni delle lesioni cutanee a broncopolmoniti, encefalomieliti, uveiti, glomerulonefriti, artriti, osteomieliti, orchiti. La lista può allungarsi ad libitum.
Occasionalmente l’exitus poteva avvenire prima dell’esantema, per emorragia; oppure per la formazione di grosse vescicole o bolle con ulcerazioni delle mucose. In questi casi si aveva febbre elevata
Terapia e vaccino
Per il vaiolo non esisteva terapia. Intorno l’anno 1000 a.C., in India, si praticava la variolizzazione. Questa consisteva nell’insufflazione di croste vaiolose triturate, provenienti per lo più da malati scampati alla malattia. L’esito era incerto, dipendente soprattutto dall’assenza di titolazione del materiale impiegato: molto frequente era il contrarre la malattia, a decorso infausto.
Fu con Edward Jenner che sono state poste le basi per la creazione di un vaccino (il primo nella storia). Egli notò che le mungitrici delle vacche, contagiatasi col vaiolo bovino, non contraevano, se esposte, il vaiolo. Ne dedusse che il vaiolo bovino, inoculato, potesse proteggere dal vaiolo umano. Il termine vaccino deriva da Variola Vaccinae (Vaiolo della Vacca); ben presto fu utilizzato per indicare l’inoculazione del solo vaccino antivaioloso, ma dal 1981 Pasteur lo utilizzò in senso generalizzato.
Vaccinazione
Il vaccino dell’età moderna, opportunamente purificato e titolato, veniva somministrato per via sottocutanea ma più spesso attraverso scarificazione, utilizzando un ago biforcato, precedentemente immerso nella soluzione vaccinale, per pungere la cute, solitamente del braccio, più volte in pochi secondi. Dopo qualche giorno, nel sito di iniezione, si formava una macula poi tramutatasi in bolla ripiena di pus; dopo una settimana si formava una crosta, che, cadendo la settimana dopo, lasciava una cicatrice permanente, segno dell’avvenuta vaccinazione. Spesso nelle bambine si utilizzavano altre sedi vaccinali, per nascondere la successiva cicatrice.
Scomparsa della malattia
Questo vaccino non dava immunità permanente; la vaccinazione venne sospesa intorno agli anni ’80, quando l’OMS decretò l’eradicazione della malattia. Si decise a livello mondiale di tenere vitali le colture di questo virus, a scopi scientifici, in due laboratori, in Russia ed in America. Un terzo laboratorio, a Birmingham, in Inghilterra, che pure conservava le colture, andò incontro a contaminazioni, che portarono a morte una ricercatrice e al suicidio il direttore dell’Istituto.
Storia del Vaiolo come arma biologica
Ovviamente prenderemo in considerazione la premeditazione del gesto, non la semplice casualità. Tutto ha inizio intorno al 1533, epoca in cui i Francesi cominciarono a colonizzare il Nuovo Mondo, pacificamente: per far ciò intrecciarono forti legami con le popolazioni locali (soprattutto con la tribù degli Huroni), imparando la loro lingua, apprezzando i loro usi e costumi ed incentivando i matrimoni misti.
Intorno al 1600 gli esploratori Francesi dal Canada si erano spinti a sud, attraverso la valle dell’Ohio per arrivare in Luisiana ed al golfo del Messico. Inevitabilmente arrivarono a scontrarsi con i colonizzatori Inglesi, che avevano stretto alleanza con la tribù degli Irochesi. Nonostante gli insediamenti della Nuova Francia fossero molto estesi, erano molto meno popolosi degli insediamenti della Nuova Inghilterra.
Guerre franco – britanniche in America
Intorno al 1750 scoppiò la guerra: nonostante le vittorie iniziali i Francesi ebbero, alla fine, la peggio e la Nuova Francia venne definitivamente conquistata dai Britannici. Le tribù indiane della valle dell’Ohio non gradirono di sottomettersi al re d’Inghilterra, anche perchè la colonizzazione inglese non assomigliava per niente a quella francese: i Francesi erano leali, e commerciavano in modo onesto con i nativi, mentre gli Inglesi erano privi di scrupoli, arroganti e disprezzavano la cultura e le usanze indiani.
La tensione salì al massimo livello nel 1763 allorquando il generale governatore del Nord America James Amherst annunziò che avrebbe interrotto da quell’anno l’offerta annuale di doni (manufatti, coperte, armi), tradizione inaugurata e mantenuta in vita dai Francesi.
A questo punto Pontiac, capotribù degli Ottawa, riuni tutte le tribù della valle dell’Ohio, cominciando quella che sarebbe stata chiamata “Pontiac’s Rebellion”. Ci fu una serie di vittorie della tribù di Pontiac e dei suoi alleati: nove Forti inglesi caddero nelle mani degli indiani. Altre tribù si allearono a Pontiac, anche parte degli Irochesi.
Epidemia a Fort Pitt
Fu durante il sanguinoso assedio di Fort Pitt che scoppiò una epidemia di vaiolo tra i militari inglesi: da quì il piano di adoperare coperte infettate dai malati per contagiare gli Indiani ideato ed approvato dal generale Amherst. Esiste, per riprova, una documentazione scritta, autografa, di uno scambio di missive tra il generale ed un suo colonnello.
Gli Indiani, senza protezione immunitaria, contrassero il vaiolo, e furono decimati, tant’è che qualche anno dopo, fiaccati e ridotti di numero, dovettero negoziare un trattato di pace, concluso nel 1766 dallo stesso Pontiac. L’inizio della guerra di secessione segnò l’abrogazione di tale trattato.
COLERA
Il Colera è dovuto alla colonizzazione dell’intestino tenue da parte di un batterio, il Vibrio Cholerae, che, elaborando una tossina, provoca una grave perdita di liquidi ed elettroliti col vomito e soprattutto con la profusa diarrea.
La malattia colpisce l’uomo, che ne è anche portatore asintamatico. Si trasmette per via fecale-orale, attraverso le feci dei soggetti infetti, le acque contaminate, i molluschi bivalva, cibi contaminati. I portatori asintomatici e quelli cronici (con eliminazione intermittente) svolgono un ruolo importante nella diffusione della malattia
Epidemiologia
Il Colera è endemico in India, e nell’asia sud-orientale; storicamente è il Delta del Gange il focolaio della malattia. Nel corso degli ultimi trecento anni si sono succedute sei pandemie; nel 1960 è iniziata la settima pandemia, tuttora in corso, presentandosi in Spagna, Portogallo. Francia ed Italia, favorita dagli spostamenti delle popolazioni (pare che il pellegrinaggio a La Mecca abbia un certo ruolo favorente).
Patogenesi
Come precedentemente scritto, oltre la colonizzazione del tenue, il Vibrione agisce con la produzione di una tossina. In sede intestinale non produce lesioni, ma se moltiplica rapidamente. L’attivazione della tossina prodotta comporta la secrezione di quantità elevate di liquidi, che, non potendo essere assorbiti dal colon, si eliminano col la diarrea o col vomito.
Sintomatologia
Dopo un periodo di incubazione di pochissimi giorni si ha “l’attacco colerico”, ovverossia l’emissione di un numero imprecisato di scariche, senza dolore addominale, senza sangue o leucociti, di odore indifferente. Le deiezioni hanno un caratteristico aspetto “ad acqua di riso”. Con la diarrea il corpo perde notevoli quantità di liquidi, il che comporta disidratazione con ipopotassemia. Dopo c’è il vomito, sempre dopo la diarrea, sudorazione fredda, sete intensa, e, a seguire, oligo-anuria e shock. Il naso si presenta affilato, l’addome incavato, a barca, non c’è febbre, nè alterazione del sensorio, se non alla fine. Nei casi non trattatl la morte sopravviene in poche ore o nell’arco di 2-3 giorni.
Diagnosi
Si basa sull’esame colturale delle feci e sulla caratteristica sintomatologia.
Terapia
Nonostante il vibrione sia molto sensibile agli antibiotici (tetracicline, cloramfenicolo, ecc) è la rapida reidratazione il vero trattamento, osservando la giusta composizione dei liquidi da infondere.
Colera a Napoli
Nel 1973 c’è stata una epidemia di colera a Napoli, con coinvolgimento di Campania, Puglia e Sardegna. L’epidemia, probabilmente provocata dal consumo di cozze crude, portò al ricovero in ospedale di diverse persone in pochissimi giorni. La popolazione fu presa dal panico, a causa di 2-3 decessi, e così cominciarono i tumulti, con blocchi stradali e attacchi ai camion per la disinfezione. Fu proibita la vendita dei frutti di mare e vennero avviate le procedure igieniche del caso. Ma quando si seppe che sempre più pazienti erano stati ricoverati, la rivolta dei cittadini aumentò. Questi erano esasperati sia per la mancanza in città di antibiotici, che di limoni, venduti ormai al mercato nero, il cui succo attenuava gli effetti dei sintomi dell’infezione.
La vaccinazione
Per l’intervento di alcuni volenterosi, militanti del PCI, fu istituito un centro vaccinale, e si potè procedere alla vaccinazione di quasi l’80% della popolazione in pochi giorni (senza l’ausilio di Commissari di sorta !) anche per l’intervento della VI Flotta Navale USA, che fornì le siringhe a pistola, già usate nella guerra del Vietnam. Addirittura si inizio’ intrapresa la somministrazione della seconda dose, cosa che non si ritenne più necessaria, causa la conclusione della malattia.
Epilogo
A Napoli venne vietato il commercio dei molluschi, scatenando la protesta dei pescatori, che, teatralmente, consumavano in pubblico le cozze crude.L’epidemia, iniziata nel mese di agosto, finì il 19 settembre, ricorrenza del Santo Patrono, col riscontro diagnostico dell’ultimo paziente, ma col bilancio di 24 morti (in tutte e tre le Regioni Interessate).Si stima che l’epidemia portò danni incalcolabili; tuttavia le misure igieniche messe in atto, portarono ad una drastica diminuzione delle malattia a trasmissione oro-fecale. L’infezione, si seppe poi, era dovuta ad una partita di cozze proveniente dalla Tunisia.
Nel novembre 1973 Eduardo De Filippo compose in dialetto napoletano un sonetto intitolato L’imputata, dove si immagina un dialogo tra un giudice e una cozza portata a processo.
L’imputata di Eduardo De Filippo
«Cara còzzeca, tu staie inguaiate», decette’o magistrato, «’o fatt’è chisto, ccà nun te salva manco Giesù Cristo; o l’ergastolo, o fucilata. Qui ci sono le prove, figlia mia… tu hai portato il bacillo del colera… La tua presenza è una presenza nera: ’a gente more all’erta mmienz’a via. Che’ dici a tua discolpa?». «Ecco vedete… affunn’ ’o mare ‘a cozzeca s’arrangia», dicette l’imputata, «e lo sapete… là ssotto, preside’, para l’inferno! Chello c’arriva ‘a cozzeca se mangia: si arriva mmerda, arriva dall’esterno!»
a cura del Dott. Giovanni Mannino